In Italia la canapa è sottoposta ad un duplice e ambivalente regime normativo: da un lato essa è considerata pianta agricola e industriale dalla legge 242/2016, dall’altro è identificata come sostanza drogante dal Testo Unico sugli stupefacenti (d.p.r. 309/90).
Tuttavia la legge 242/2016 riconosce la possibilità di coltivare la canapa, purchè la cannabis abbia un contenuto di principio attivo (THC) non superiore a 0,2% con tolleranza sino a 0.6%, superato il quale si incorre in responsabilità penale.
I coltivatori devono rispettare alcune formalità, tali da consentire la dimostrazione dell’assoluta correttezza nell’esecuzione dei lavori e del rispetto totale dei limiti di THC imposti dalla legge. In caso di indagini, le autorità possono rilevare un campione dalla piantagione in presenza del proprietario e qualora i livelli di THC si dovessero dimostrare superiori al limite consentito, la piantagione viene sottoposta a sequestro o a distruzione. Ad ogni modo le certificazioni di cui l’agricoltore deve disporre devono provenire da un laboratorio analisi.
Come già confermato dalla Suprema Corte di Cassazione, l’attività di commercio della cannabis in prodotti quali foglie, infiorescenze, oli e resina, ottenuti dalla coltivazione di canapa, non rientra nell’ambito di applicazione della sopra citata legge, che si riferisce letteralmente ed unicamente alla coltivazione. Pertanto soltanto quest’ultima potrà considerarsi expressis verbis lecita.
Secondo un primo indirizzo, la già citata legge del 2006 non consentirebbe la commercializzazione dei derivati dalla coltivazione della canapa, sul presupposto che essa disciplinerebbe esclusivamente la coltivazione della canapa per i fini commerciali ivi indicati e tra i quali non rientra la commercializzazione dei prodotti costituiti dalle inflorescenze e dalla resina. Secondo tale orientamento, la commercializzazione dei derivati dalla coltivazione di cannabis sativa, sempre che presentino un “effetto drogante”, integrerebbe gli estremi di reato.
Secondo un diverso orientamento, invece, nella filiera agroalimentare della canapa che la legge del 2016 intende promuovere, rientra la commercializzazione dei relativi derivati in quanto dalla liceità della coltivazione discenderebbe la liceità dei prodotti che contengono una percentuale di principio attivo inferiore allo 0,6%. Deve quindi escludersi, qualora le inflorescenze provengano da coltivazioni lecite ai sensi della legge n. 242 del 2016, la responsabilità penale sia dell’agricoltore che del commerciante.
A “sciogliere” i dubbi interpretativi sulla legge, è intervenuta la Suprema Corte a Sezione Unite (Cass., Sez. un., sent. 30475/2019), la quale ha stabilito che la “legalità” introdotta dalla legge del 2006 si riferisce soltanto alle coltivazioni di canapa delle varietà ammesse iscritte nel catalogo comune delle varietà delle specie di piante agricole, le quali non rientrano nell’ambito di applicazione del testo unico delle leggi in materia di sostanze stupefacenti. Esse si collocano solamente nell’ambito di coltivazioni di canapa per la produzione di fibre o per altri usi industriali, un tipo di coltivazione peraltro già esclusa dal novero delle attività illecite dall’art. 26 del testo unico in materia di stupefacenti.
Poste tali premesse, ne consegue che i prodotti di cui è possibile fare lecita coltivazione sono quelli tassativamente elencati all’art. 2 della legge n. 242 del 2016:
- a) alimenti e cosmetici prodotti esclusivamente nel rispetto delle discipline dei rispettivi settori;
- b) semilavorati, quali fibra, canapulo, polveri, cippato, oli o carburanti, per forniture alle industrie e alle attività artigianali di diversi settori, compreso quello energetico;
- c) materiale destinato alla pratica del sovescio;
- d) materiale organico destinato ai lavori di bioingegneria o prodotti utili per la bioedilizia;
- e) materiale finalizzato alla fitodepurazione per la bonifica di siti inquinati;
- f) coltivazioni dedicate alle attività didattiche e dimostrative nonché di ricerca da parte di istituti pubblici o privati;
- g) coltivazioni destinate al florovivaismo.
Pertanto, sulla base dell’ordinamento vigente, dalla coltivazione di canapa non possono essere lecitamente realizzati prodotti quali foglie, inflorescenze, olio e resina e la loro commercializzazione integra una fattispecie di reato, a prescindere da qualsiasi riferimento alle concentrazioni di THC presenti nel prodotto, in quanto prodotti rientranti nella definizione di “sostanza stupefacente”.
Valga però aggiungere che la stessa Corte di Cassazione ha valorizzato il principio della concreta offensività della condotta, ponendo rilievo alla verifica della reale efficacia drogante delle sostanze stupefacenti oggetto di cessione. In particolare si è detto indispensabile che il Giudice verifichi la concreta idoneità della sostanza a produrre un effetto drogante, prescindendo dal principio attivo contenuto nella sostanza ceduta. Infatti il reato di spaccio della sostanza stupefacente può essere escluso in caso di cessione di quantitativi di sostanza stupefacente talmente minima da non poter modificare l’assetto neuropsichico dell’utilizzatore. Dunque ai fini della configurabilità del reato è necessario dimostrare, con assoluta certezza, che il principio attivo contenuto nella dose destinata allo spaccio, o comunque oggetto di cessione, sia di entità tale da poter produrre in concreto un effetto drogante.
Alla luce dell’assetto normativo vigente come sopra chiarito, l’offerta a qualsiasi titolo, la distribuzione e la messa in vendita dei derivati dalla coltivazione della canapa integrano fattispecie di reato. Si impone però la necessità di una puntuale verifica della concreta offensività delle singole condotte, rispetto all’attitudine delle sostanze a produrre effetti psicotropi.
Ribadendo che la cessione di sostanze stupefacenti integra una fattispecie di reato, di seguito a titolo esemplificativo alcuni elementi che, alla luce della giurisprudenza passata, potrebbero essere sintomatici di condotte inoffensive:
1) Conservazione dei cartellini della semente acquistata dal fornitore;
2) Conservazione delle fatture di acquisto;
3) Conservazione dei certificati delle sementi utilizzati dal coltivatore e della provenienza;
4) Conservazione di un campione per ogni tipologia di prodotto e relativa analisi di laboratorio con espressa indicazione di tutte le principali sostanze che contiene il prodotto. Tale documento andrebbe sempre allegato alla vendita;
5) Percentuale di THC contenuta nel prodotto inferiore a 0,2%;
6) Cessione del prodotto in quantità ridotta per ogni singolo ricevente, tale da non destare in alcun modo effetti “droganti”.
7) Capienza ridotta delle riserve di magazzino. Tra le condotte punite dal testo unico degli stupefacenti, infatti, vi è anche la mera detenzione della sostanza stupefacente. Questo significa che minima dovrà essere anche la quantità detenuta.
Per quanto concerne i prodotti a base di CBD, con sentenza del 19 settembre 2020 la Corte di Giustizia Europea ha osservato che non risulta avere effetti né psicotropi né nocivi per la salute. Pertanto la sua commercializzazione non può essere limitata all’interno del territorio europeo.
A presto
MN
Scrivi un commento